MEMBRO DEL PARTITO EUROPEO
Tutela e Prevenzione del Randagismo
In nome della "difesa dell'ambiente", le classi politiche di vari paesi stanno progressivamente dilatando il loro potere sull'economia e sulla società. Non solo: richiamandosi a rischi ecologici più o meno fondati sono sempre più numerosi quanti prospettano l'esigenza di dare vita ad uno Stato mondiale che veda unificati in un unico cartello monopolistico i ceti politici nazionali, in modo tale da elaborare terapie adeguate. Secondo il dogma ambientalista, infatti, la tutela della natura esige soluzioni planetarie e, quindi, istituzioni politiche di quelle dimensioni.
Come è stato sottolineato da Boudewijn Bouckaert, per gli ecologisti avversi al mercato "l'ambiente è un bene collettivo, che deve essere gestito da istituzioni che rappresentino la collettività" . E da questa premessa essi fanno derivare l'esigenza "di controllare tutte le attività dei cittadini che potrebbero interessare la qualità di tale bene collettivo" .
Dinanzi a tutto ciò, quanti si riconoscono nella tradizione liberale dovrebbero avere più di un motivo per guardare con apprensione al diffondersi delle tesi degli ecologisti. In varie occasione si ha l'impressione, invece, che anche chi mostra una sostanziale fiducia nelle ragioni del libero mercato tenda a cambiare opinione di fronte al problema della tutela della natura: quasi si trattasse di situazioni del tutto particolari, sulle quali il liberalismo non sarebbe in condizione di offrire risposte.
Al contrario, le catastrofi idrogeologiche o la massiccia distruzione di coste e foreste sono la conseguenza di logiche autoritarie in tutto coerenti con quelle propugnate dai movimenti ecologisti. È ovvio che la responsabilità prima di tali disastri non è da addebitare unicamente a quanti militano nelle formazioni ambientaliste, ma è chiaro che il successo crescente delle loro idee è destinato - se non troverà resistenze - a porre le premesse per ordinamenti sempre più illiberali e per una natura sempre più degradata.
L'inquinamento e gli altri problemi ecologici che inquietano l'opinione pubblica non sono causati dall'economia di mercato e nemmeno dalla modernità tecnologica in quanto tale. La devastazione ambientale è in primo luogo il risultato della collettivizzazione crescente della natura e della regolamentazione asfissiante di ogni attività umana. È stata la progressiva statizzazione ad esporre l'ambiente a tante minacce. E dato che gli ecologisti operano, di fatto, per aumentare ulteriormente il potere che gli apparati pubblici esercitano sulla società, essi favoriscono l'affermazione di coloro che più stanno compromettendo l'equilibro tra l'uomo e il suo contesto vitale.
Contrariamente a quanto viene propagandato, se l'ambiente in cui viviamo è spesso insalubre questo è avvenuto non solo e in primo luogo a causa della crescita economica, ma innanzi tutto perché sono stati progressivamente accantonati quei principi giuridici privatistici che per secoli hanno notevolmente limitato la possibilità di danneggiare il prossimo.
Nel diritto romano, in virtù della dottrina delle immissiones, nessuno poteva invadere la proprietà del vicino con fumi, polveri o cattivi odori. Non c'era bisogno di una regolamentazione minuziosa, né tanto meno di una collettivizzazione di ogni ambito: era sufficiente che fosse riconosciuto ai singoli il diritto di tutelare i propri beni - nel caso specifico, le abitazioni, i campi o i laboratori - perché fosse ostacolato ogni genere di inquinamento. Nel caso di un vicino che agiva in modo nocivo o fastidioso un cittadino poteva così appellarsi ad un magistrato, affinché questi ponesse fine al danno e, se necessario, decidesse l'ammontare dell'indennizzo.
Nel corso dell'età moderna, invece, cosa è avvenuto? È successo molto semplicemente che, per privilegiare taluni obiettivi considerati fondamentali dalla classe politica, si è sottratto ai singoli il controllo dei loro beni e si è passati da un'auto-regolamentazione contrattuale, privatistica e localizzata ad una regolamentazione pianificata, pubblica e centralizzata. Come ha sottolineato Murray N. Rothbard, durante il diciannovesimo secolo perfino negli Stati Uniti della common law "i tribunali modificarono sistematicamente i concetti giuridici di negligenza e di immissione molesta al fine di permettere qualsiasi inquinamento dell'atmosfera che non fosse troppo vistoso".
Rothbard individua l'origine di tutto ciò nel trionfo dell'idea di common interest e nell'accantonamento dei principi giuridici tradizionalmente posti a difesa dei diritti degli individui. Egli cita, a questo proposito, una sentenza statunitense del 1947 in cui una corte dell'Ohio, di fronte al contrasto tra una compagnia aerea che voleva costruire un aeroporto e alcuni cittadini che si ritenevano danneggiati dall'eccessivo rumore causato dai voli, diede ragione alla prima con le seguenti argomentazioni: "nel valutare questo caso, ed essendo questa una corte di equità, non dobbiamo solo soppesare il conflitto di interessi tra il proprietario dell'aeroporto e i proprietari dei terreni vicini, ma riconoscere altresì la politica pubblica della generazione nella quale viviamo. Dobbiamo riconoscere che un aeroporto (...) è di grande utilità per il pubblico, e che se la costruzione di tale aeroporto viene impedita le conseguenze saranno non solo un grave danno per i suoi proprietari, ma la grave perdita di un servizio prezioso all'intera comunità".
Invece che tutelare i diritti di proprietà (e, nei casi citati, il diritto di non essere disturbati all'interno delle proprie case e dei propri terreni), l'ideologia utilitarista ha insomma operato un'ampia collettivizzazione di tutti quei diritti di proprietà privati connessi all'ambiente e ha posto le premesse per l'abbandono dei princìpi basilari della tradizione giuridica, aprendo la strada alla devastazione della natura. È quindi paradossale che nella situazione attuale gli ecologisti pretendano di porre rimedio ai guasti arrecati dalla dilatazione degli spazi pubblici e dei poteri di intervento dei politici confidando sempre maggiori prerogative proprio agli apparati legali.
Ma gli ambientalisti odierni sono gli eredi di un positivismo tecnocratico che è ben poco consapevole dei limiti della ragione. E non è certo stupefacente rilevare che una parte considerevole della moderna cultura ecologista tragga origine dalle riflessioni di studiosi (basta pensare al Club di Roma) che erano animati da un'ingenua fiducia nella bontà ed esattezza delle loro previsioni "scientifiche": che naturalmente non si sono mai avverate.
Può sembrare strano, ma esiste allora una precisa contiguità tra ambientalismo e scientismo, tra la più ingenua glorificazione della natura e la convinzione propria di tanti studiosi che sia possibile definire ciò che avverrà nel futuro e di quante risorse potremo disporre.
La stessa psicologia dell'ecologista presenta punti di contatto con quella del burocrate. È interessante rilevare, a tale proposito, che Karl Mannheim descrisse il funzionario sottolineando come egli sia ossessivamente preoccupato dalla sicurezza e dall'esigenza di evitare ogni sorta di rischio. A causa del suo progressivo adeguarsi ad un universo di regolamenti e di norme scritte, infatti, "il burocrate si ritrova ad un certo punto incapace psicologicamente di affrontare qualcosa che non sia calcolabile: quando questo diviene un criterio di organizzazione dell'esistenza, tutti i fenomeni umani di spontaneità e di sorpresa sono vissuti come tremendamente fastidiosi" (nota 9). L'uomo nuovo cresciuto nell'epoca dello statalismo novecentesco, sia egli burocrate o ambientalista, teme ogni libertà d'iniziativa e ogni spazio d'innovazione, convinto che soltanto ciò che è prevedibile può essere compatibile con un ordine sociale liberato dalla paura.
Coloro che auspicano una crescente tutela statale dell'ambiente, però, dovrebbero considerare che la distruzione moderna degli habitat naturali ha avuto luogo prevalentemente durante un secolo - il nostro - caratterizzato da una pervasiva presenza di proprietà pubbliche e regolamentazioni minuziose. Ma ugualmente importante è tenere a mente che questo massacro dei beni naturali non è avvenuto in eguale misura nelle società democratiche e in quelle socialiste. In questi ultimi paesi, infatti, l'assenza quasi completa della proprietà privata ha fatto sì che la natura abbia conosciuto una devastazione senza uguali.
Eppure gli ecologisti continuano a ritenere che la libertà è pericolosa e che lo Stato è il solo rimedio. Ogni proprietario è un potenziale inquinatore e quindi va in qualche modo espropriato e coartato. Da qui l'esigenza di rifiutare il mercato ed intervenire con leggi, tasse ecologiche, pianificazioni urbanistiche e progetti pubblici volti a tutelare quei beni comuni o presunti tali che il capitalismo selvaggio potrebbe distruggere. È una vera isteria illiberale, insomma, quella che domina i verdi profeti della catastrofe prossima ventura, al punto che in molti casi sembra impossibile riportare il confronto su di un piano razionale.
Le apprensioni degli ecologisti, d'altra parte, vanno ben al di là dell'inquinamento. Essi ritengono necessario mobilitare burocrati e parlamentari allo scopo di scongiurare la fine delle risorse naturali, evitare la scomparsa di specie animali e vegetali, disinnescare la cosiddetta "bomba demografica" e limitare il rischio di catastrofi planetarie, rifiutandosi di prendere in considerazione l'idea che soltanto tramite la riscoperta dei diritti individuali liberali - i diritti di proprietà - sia possibile dare risposte efficaci e soprattutto legittime a tali problemi. In merito al problema della limitatezza delle risorse di cui dispongono gli esseri umani, in primo luogo, va subito sottolineato quanto vi è di equivoco e di inaccettabile in questa immagine, che da un lato ammassa le risorse in un unico granaio mondiale e dall'altro collettivizza i singoli individui proprietari riunendoli in un immenso gregge a cui si dà il nome di esseri umani o, meglio, umanità. Le risorse che troviamo censite nelle tabelle dei vari rapporti del Club di Roma non sono (non sempre, per fortuna) risorse collettive. Spesso vi sono proprietari e in molti casi, quando essi non vi sono, è perché sono stati espropriati nel passato.
I futurologi dell'ecologismo statalista i quali tratteggiano catastrofi prossime venture causate dal venir meno delle risorse, inoltre, pongono alla base di tutto il loro ragionamento un errore concettuale gravissimo: essi pensano alle risorse come a dati fissi, e non come ad un qualcosa di dinamico, ignoto, tutto da scoprire e valorizzare. Se uno scienziato inglese medievale avesse potuto sommare le calorie a disposizione del suo popolo e avesse saputo tracciare diagrammi sulla crescita demografica, analoghi a quelli dei ricercatori contemporanei, ne avrebbe tratto conseguenze sconfortanti: con ogni probabilità egli avrebbe prospettato un futuro senza riscaldamento per i discendenti del ventesimo secolo, oltre al totale disboscamento delle isole britanniche. Nei suoi calcoli, infatti, egli avrebbe messo la legna degli alberi e forse il carbone, ma non certamente il gas metano e il petrolio, né avrebbe potuto immaginare di quali sistemi di difesa dal freddo possono disporre gli inglesi d'oggi, che vivono in case di cemento armato dotate di doppi vetri e moderne caldaie.
Le risorse complessive sono del tutto ignote. Esse sono celate da innumerevoli misteri che potrebbero restare tali per sempre e che qualche volta si schiudono, in maniera parziale, per lo più grazie all'iniziativa di alcuni uomini particolarmente ingegnosi. Ma è del tutto evidente che le potenzialità di tali individui possono esprimersi al meglio entro una società fondata sulla proprietà privata e sulla concorrenza.
Di questo abbiamo già fatto esperienza in più occasioni. Fino a quando il sistema capitalistico non ha indotto a considerare il petrolio quale strumento di grande utilità per muovere i motori e riscaldare le abitazioni, esso non era affatto considerato una risorsa. Per secoli, insomma, non fu altro che un liquido nero che sporcava il deserto... Le analisi sviluppate dall'ecologia di mercato mostrano come gli allarmismi in merito al rapporto tra lo sviluppo capitalistico e la scomparsa delle materie prime non siano da prendere sul serio. Al contrario, è proprio dal diffondersi delle teorie ambientaliste avverse al mercato che possono venire le più serie minacce. Quelle tesi pianificatorie, se continueranno ad essere accolte dai governanti e ad essere tradotte in azioni contrarie alla libertà di iniziativa e ai diritti di proprietà, potrebbero davvero porre le premesse il saccheggio e la distruzione di molti diritti sull'ambiente.
Analogamente poco convincenti sono le tesi ambientaliste in materia di demografia e le proposte miranti a contenere la crescita della popolazione terrestre. Gli ecologisti sbagliano perché tratteggiano l'uomo quale semplice distruttore e non quale scopritore, inventore e - dunque - generatore di risorse. Essi trascurano che la prima risorsa e (purtroppo) la più scarsa è proprio l'intelligenza... Sono ossessionati dai dati sulla quantità del petrolio o del ferro presenti nelle viscere del pianeta e non si rendono conto che non possiamo assolutamente sapere se, tra un secolo o anche meno, ne avremo ancora bisogno e in che misura. I paesi ad economia anche solo parzialmente di mercato, d'altra parte, producono più prodotti agricoli di quanti non ne consumino, e questo a dispetto del fatto che sono spesso molto densamente popolati! In virtù della libertà e del progresso ad essa conseguente, poca terra produce tanto grano.
Gli ambientalisti "rossi", invece, ritengono che l'aumento della popolazione terrestre comporti l'ingrossarsi dell'esercito dei distruttori (gli esseri umani). Nella loro moderna superstizione, l'uomo è il nemico della natura e meno c'è l'uomo, meglio vive l'ambiente. Nemmeno li sfiora l'idea che più uomini possa dire più conoscenze, e che maggiori conoscenze possano comportare la possibilità di curare meglio il mondo in cui si vive, così che diventi perfino possibile abitare la terra in un modo più rispettoso degli equilibri naturali. Né li sfiora il dubbio che gli uomini possano coltivare (almeno potenzialmente) un animo da giardinieri...
Gli ecologisti "rossi" non comprendono che all'origine dei disastri ambientali moderni ci sono la progressiva soppressione dei diritti individuali, sostituiti dalla proprietà pubblica, ed il trionfo della regolamentazione sulla contrattazione. Soltanto un regime di libertà è allora in grado di porre le premesse per una natura meglio tutelata.
Ma la libertà, da sola, non può bastare. Essa rappresenta lo spazio indispensabile all'affermarsi di iniziative per l'ambiente. Abbiamo visto che la definizione di diritti di proprietà privata su quei beni generalmente statizzati (gli elefanti, i pesci, le foreste, ecc.) ha permesso l'espansione di imprese di successo in tutti questi settori. Con risultati molto positivi anche per il futuro e la buona salute della natura.
L'elemento decisivo, però, resta l'uomo. Senza individui e gruppi intraprendenti, coraggiosi, innovativi e capaci di assumere rischi non avremo alcuna attività economica: e neppure azioni a difesa dell'ambiente. Perché vi siano aziende nel settore dell'acquacoltura o dedite allo sfruttamento economico degli elefanti (ma anche alla valorizzazione turistica delle coste e delle montagne, o ad un'oculata gestione delle risorse idriche) abbiamo bisogno di trovare persone che si assumano gli oneri dell'avventura imprenditoriale.
Pronti per le Elezioni Europee del 2009: IL Partito Animalista Italiano, insieme agli Ecologisti del Partito Ambientalista ed al PARTITO degli EURO SCETTICI Italiani, entra a far parte del PARTITO EUROPEO E.U.D. (www.eudemocrats.org) e si Prepara a presentare le proprie Liste alle EUROPEE 2009!! ...